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Green e blue economy: le realtà della generazione Z

Le nuove espressioni linguistiche, che fanno ormai parte del lessico abituale, sono anche il simbolo di una percezione sempre più forte dell’emergenza ambientale e delle sue conseguenze

Tra le forme lessicali del XXI secolo, “Green economy” è tra le più ricorrenti specie negli ultimi tempi e tra i più giovani. Tuttavia, il termine non può associarsi unicamente a una realtà che riguarda solo le nuove generazioni ma piuttosto a un modo per identificare una globale necessità di rispondere, in maniera fattiva, all’emergenza climatica in atto. Sovente associata alla Green economy nel linguaggio comune, vi è la Blue economy che persegue il medesimo fine di salvaguardia del globo ma con sfumature differenti sia nell’applicazione del metodo che nel risultato ultimo. Se infatti la Green economy propone modelli virtuosi di riduzione di emissioni di CO2 in tutti gli ambiti produttivi, la Blue economy si ponte un obbiettivo ancora più arduo: azzerare completamente tali emissioni attraverso il riciclo totale dei mezzi di produzione.

Ma a quando risale più precisamente il green pensiero? È indubbio che, parallelamente allo sviluppo industriale, sia affiorata gradualmente una coscienza legata alle conseguenze di determinate scelte produttive anche se è agli inizi degli anni ’70 del XX secolo che si studia il fenomeno in maniera più specifica. In questo periodo, infatti, sorge il concetto di sostenibilità legato allo sviluppo economico. Sarà però prevalentemente nel primo decennio degli anni 2000 che verranno compiuti studi sempre più accurati sulla reale sostenibilità di produttività e rispetto ambientale, specie con il Picco del petrolio del 2008 e della Grande recessione di due anni prima. Un fenomeno che, com’è noto, partendo dagli USA, ha avuto strascichi negli anni successivi che possono identificarsi in scelte di livello mondiale tali da accelerare la ricerca di soluzioni di alcune problematiche dormienti e legate al rispetto del patrimonio verde mondiale. Questo ha portato a riflettere sulla necessità di reinventare nuovi modelli produttivi in grado di rinnovarsi senza intaccare le energie messe a disposizione dal pianeta che risultano insufficienti in corrispondenza allo sfruttamento che viene fatto dalle economie mondiali.

Dalla costola della Green economy si è dunque sviluppata, in un secondo momento, la Blue economy che si differenzia dalla prima prevalentemente per una diversa ottica di utilizzo di quello che il pianeta può offrire: non vi è pertanto uno sfruttamento senza soluzione di continuità delle risorse, piuttosto un utilizzo coscienzioso di quelle che possono essere utilizzate davvero. Ciò non significa porre dei paletti al progresso ma reinventare un diverso modo di avvertire le esigenze di ognuno senza contraccolpi irreversibili. Un fenomeno che può radicarsi, ed effettivamente lo sta facendo, soprattutto tra le nuovissime generazioni che si affacciano sul mondo con una coscienza ben diversa perché insita nel loro modo di sentire. Dunque, ci troviamo senz’altro in un’era in cui cambiano le necessità collettive o meglio cambia la percezione di quanto sia impellente fare qualcosa per l’ambiente. Una delle conseguenze di questo vero e proprio movimento che coinvolge le coscienze, e soprattutto quelle della cosiddetta generazione Z, è l’eco-ansia. Si tratta di un disturbo che la psicologia, nello specifico l’American Psychological Association (APA), definisce come “una paura cronica della rovina ambientale”, chi ne soffre sente molto forte l’esposizione al rischio di una catastrofe non più gestibile tramite buone regole di condotta quotidiana. Uno stress che impedisce prima di tutto di vivere le attività sociali con serenità. I primi casi registrati si sono verificati in occasione di manifestazioni a favore dell’ambiente, già nel 2017: chi soffriva della patologia che ora identifichiamo con il nome di eco-ansia, non aveva appetito e non riusciva a relazionarsi con gli altri o prendere la parola in un dibattito.

Infine, resta una questione che sta diventando sempre più controversa: fino a che punto c’è vera coscienza di quello che si può fare per salvare il pianeta? O meglio: le generazioni dei più giovani, e non solo quelle, sono davvero in grado di individuare con quali mezzi si possa intraprendere questa nuova strada virtuosa o avrebbero difficoltà, in concreto, a rinunciare anche alle più piccole e apparentemente banali comodità a cui sono da sempre abituati? Un esempio tra tutti: lo smartphone e, soprattutto, la disinvolta sostituzione che se ne fa con il modello più recente senza una reale necessità di avere un nuovo dispositivo. Lo smartphone è solo uno dei tanti esempi: si pensi ai capi d’abbigliamento, ai materiali e alle risorse utilizzati per produrli, ai mezzi di trasporto alternativi come quello elettrico o la cara vecchia bicicletta ancora non in grado di sostituire, per molti, il motorino. Questi sono solo pochi casi: in realtà basta guardarsi attorno per capire l’entità delle scelte sbagliate che vengono compiute continuamente e, quello che è peggio, inconsciamente. Non spetta certamente ai più giovani prendere chiari e seri provvedimenti in tal senso poiché per loro, ora, è fondamentale avere una guida che ascolti le loro istanze e che metta in pratica un programma ben definito. Resta evidente un fatto: che il cambiamento può esserci ma sono molte le cose che andranno valutate, prima tra tutte una vera rieducazione capillare. Si tratta di un’autentica rivoluzione a cui tutti vorremmo tendere ma che, in pratica, le cui reali dinamiche conosciamo forse ancora troppo poco.

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